“Encanto”: la rappresentazione perfetta di un mondo che scompare

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    Nella famiglia Madrigal tutti sono super, magici e fantastici. Eccetto una: Mirabel. È lei è la protagonista di Encanto, film d’animazione targato Disney, una ragazza normale. Sua sorella Luisa ha una forza sovraumana; la maggiore, Isabela, fa spuntare fiori quando cammina; sua zia è capace di scatenare tempeste e sua mamma di curare i malati con le sue ricette. Ogni singolo membro della famiglia Madrigal, dal cugino più piccolo allo zio più svampito, ha un potere magico stravagante e incredibile. Tranne Mirabel: banale, deludente, assolutamente comune. Diretto da Byron Howard e Jare Bush, assieme alla co-regista Charise Castro Smith, Encanto è una storia sulla famiglia, sulla pressione delle aspettative e sul bisogno di liberarsi dall’idea di perfezione, perché quando non c’è spazio per gli errori non c’è spazio per conoscersi.

    È così che viene fuori che la sorella perfetta in realtà vorrebbe solo essere libera di creare cose imperfette, che quella forte non ce la fa più a reggere il peso del mondo, che la pecora nera della famiglia non è altro che una persona dolce e fraintesa. Tutti i classici archetipi familiari vengono scoperti e infranti da Mirabel, rivelando la fragilità dietro alle maschere e le enormi crepe nella perfetta – ma tossica – famiglia Madrigal. Sarà proprio la ragazza meno speciale a salvare la sua famiglia da se stessa e dal suo ossessivo tentativo di performare ruoli idealizzati e impossibili da mantenere.

    Ma andando ancora più a fondo, Encanto è l’emblema di come i traumi possano essere tramandati per generazioni nelle famiglie migranti. Ammetto di non aver pensato immediatamente a questa lettura, non facendo parte della mia esperienza. Ma poi, curiosando sui social, ho scoperto che le varie piattaforme sono state inondate di testimonianze di migranti di prima generazione che hanno rivisto se stessi e le proprie famiglie nell’archetipo dei Madrigal. Il fatto di essere trapiantati in un ambiente totalmente nuovo e il trauma di perdere la propria casa ha fatto sì che molti genitori migranti diventassero come l’abuela di Encanto: duri, severi, alla ricerca della perfezione dei propri figli.

    L’abuela è un personaggio difficile da amare all’inizio: ha una visione univoca di ognuno e ne scoraggia il cambiamento, ed è eccessivamente dura con Mirabel. Ma, andando avanti, scopriamo che non è un’antagonista. È una donna indigena costretta alla diaspora, che pensava di poter avere una vita normale e felice, lì nel paesino rurale dove è nata, con suo marito e i suoi tre bambini. Invece, suo marito è stato ammazzato di fronte ai suoi occhi e lei ha perso la sua casa, la sua terra, e anche una parte di se stessa.

    Encanto è ambientato intorno agli anni Cinquanta o l’inizio dei Sessanta, quindi la storia dell’abuela risale alla prima metà del secolo. In quel periodo nel Paese imperversava la Guerra dei Mille Giorni, una guerra civile che lo ha dilaniato e costretto alla diaspora di milioni di colombiani. In quell’occasione morirono oltre 150mila persone: si tratta di uno degli episodi più violenti nella storia della Colombia, che ancora oggi risiede nella memoria collettiva della nazione. Nonostante in Encanto non venga resa esplicita l’origine dell’assalto al paese dell’abuela, la sofferenza, il conflitto armato, la cacciata dalle proprie terre e la perdita del marito Pedro sono storicamente influenzati da questo episodio.

    Nelle narrazioni occidentali abbiamo sempre bisogno di un cattivo, figuriamoci se poi è la Disney. In questo caso, invece, non possiamo che restare delusi: c’è solo una donna giovane, sola, senza più nulla, che ha avuto sulle sue spalle la responsabilità di ricostruire una vita per i suoi figli da zero. Come tanti, è diventata dura con la sua stessa famiglia, per evitare che soffrisse come lei, che potesse perdere i suoi poteri – la fonte della sua stabilità – e la sua casita. È un simbolo della sofferenza indigena, di quella migrante, della paura di perdere ciò per cui Pedro si è sacrificato.

    E il trauma e la sofferenza dell’abuela viene tramandato in forma di pressioni e aspettative. Le sorelle di Mirabel ne sono il risultato: Isabela è la figlia maggiore, quella che deve dimostrare il valore della famiglia, il suo essere meritevole e sacrificare parte della sua infanzia per essere perfetta. Quando si lascia la propria terra per mancanza di risorse, non sfruttare al massimo tutte quelle del Paese di destinazione sembra un affronto e un insulto ai sacrifici dei propri genitori. Luisa è invece quella forte, quella che deve proteggere gli altri. Non è un ruolo nuovo, c’è sempre il familiare che si prende carico dei pesi degli altri, ma i pesi di una famiglia emigrata sono diversi. Bisogna combattere, bisogna difendere, non bisogna mai arretrare.

    Una cosa è certa: se le reazioni del pubblico sono state così forti, significa che la Disney ha alzato l’asticella in materia di rappresentazione. Encanto non è un miscuglio di elementi esuberanti, nostalgici e macondiani messi lì a caso. Certo, c’è stato un forte lavoro sugli elementi culturali della Colombia: la Disney ha collaborato col popolo indigeno Zenu per rappresentare arte e artigianato, ma ci sono state anche consulenze di esperti sulla biodiversità delle foreste, sui simboli delle comunità afrodiscendenti e sull’architettura del Paese. Ogni dettaglio è stato ben curato per dare una veridicità al racconto. Notevole è anche il lavoro di Germain Franco e Lin-Manuel Miranda sulla colonna sonora, basata su una ricerca dei ritmi provenienti dalle tre radici della Colombia: quella indigena, quella spagnola e quella africana.

    Ma non è solo questo. A far superare il tipico sguardo disneyano da Guerra Fredda è stato il lavoro degli autori non solo sul contenuto, ma sulla sua forma. Encanto è una celebrazione del realismo magico sudamericano, ne abbraccia totalmente il senso e gli elementi narrativi. Il real maravilloso, l’intreccio tra mito e realtà, è una risposta ai drammi sociali del Sudamerica. Come scriveva Silva Romero, siamo nella miseria, ma tutto è bellissimo, un miracolo. E proprio il miracolo viene chiamata la candela dei Madrigal, fonte dei loro poteri. La candela ha preso vita in un momento drammatico della vicenda dell’abuela, quello della morte di suo marito per mano della guerriglia. Non sono i sombreri e le mochila a essere il punto di questa storia: i simboli allegri, la magia e le canzoni sono solo una facciata che nasconde la violenza, il dramma, la perdita.

    Niente antagonista, niente regno magico e fatato: questa è una favola latina. Il real maravilloso colombiano nasce dall’intreccio delle radici indigene, spagnole e africane del Paese, e porta con sé un modo differente di leggere la realtà. La cosmologia indigena, la mitologia africana, il sangue sparso dalla colonizzazione, la difficoltà dell’integrazione, le guerre interne: tutto va a confluire in un modo di abitare il mondo che è diverso da quello occidentale, materialista e binario. Ed è solo con questa consapevolezza che si poteva raccontare l’essenza della Colombia senza farne un’accozzaglia di pappagalli e tucani colorati, cose e persone che non hanno senso di stare assieme.

    Certo, non credo che la Disney si sia ravveduta sulla via di Damasco – è pur sempre una multinazionale con un oligopolio mediatico affamata di denaro. Non ha avuto interesse per anni all’elaborazione di racconti autentici che non depredassero le culture target senza rispettarle. Ma ha compreso che il mercato di oggi è cambiato e che ha bisogno di autori capaci, di ricerca, di coinvolgimento delle parti interessate per produrre una storia valida che non procuri solo imbarazzo. E il lavoro collettivo del team è stato ineccepibile.

    Però, mi sento di aggiungere una nota dolente che rovina questo quadro perfetto. La Disney ha già incassato oltre 207 milioni in tutto il mondo, ma cosa resta ai popoli indigeni della Colombia? Proprio mentre stavo scrivendo questa recensione, Breiner David, ambientalista 14enne, è stato ammazzato mentre difendeva le terre del suo popolo, i Nasa. È successo nelle terre rurali dipinte dalla computer grafica mozzafiato di Encanto, nel dipartimento del Cauca. È lì che gruppi paramilitari – i dissidenti delle FARC, i guerriglieri dell’Esercito di liberazione nazionale e l’ELN – e i narcotrafficanti si scontrano per ottenere il controllo dei corridoi della droga verso i porti del Pacifico.

    Il Paese sudamericano è diventato per Global Witness il luogo più pericoloso al mondo per gli ambientalisti, con 65 vittime sulle 227 del 2020. La maggior parte degli omicidi di indigeni in Colombia avviene proprio nel dipartimento della Valle del Cauca. Sotto attacco dei narcos è anche il popolo Awá, di cui sono stati uccisi 50 membri solo nel 2021. Il loro territorio, tra i dipartimenti di Nariño e Putumayo, nel sud-ovest del Paese, è un corridoio strategico grazie alla sua fitta giungla e per il suo diretto collegamento al Cauca e al massiccio montuoso colombiano. Stando all’Ufficio per gli affari umanitari delle Nazioni Unite e Indepaz, la Colombia è il Paese con più massacri in assoluto: 286 dal 2016.

    Mentre la colonna sonora di Encanto è salita al primo posto della classifica Billboard dei 200 album più comprati e il mondo intero balla sui ritmi indigeni e africani meticolosamente rappresentati, la loro fonte sta scomparendo. Intere popolazioni indigene stanno venendo cancellate, non riconosciute dallo Stato, non aiutate da nessuna potenza mondiale o organizzazione internazionale. E, in questo caso, non ci sarà nessuna candela magica a salvarle. Nessun potere sovrannaturale, nessuna solidarietà delle comunità vicine. Allora, guardiamo bene quei frammenti culturali e spirituali della tradizione indigena colombiana, guardiamo alla mitologia e alla narrativa, guardiamo i vestiti, i cucchiai intagliati, il cibo tradizionale, ascoltiamo quella musica: Encanto rischia di diventare la testimonianza di un mondo che fu.

    Fonte: www.mardeisargassi.it By Noemi De Luca
     
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